Certificare una produzione permette di presentarsi sul mercato con una marcia in più. Garanzia di sostenibilità, etica e innovazione, però, le certificazioni oggi sono ancora appannaggio della grande distribuzione. Come? Lo abbiamo chiesto nello scorso numero di uvadatavola magazine a Carmelo Sigliuzzo, agronomo e Responsabile Certificazione Volontaria di Prodotto presso Check Fruit srl.
Da sempre sul mondo delle certificazioni nel settore agroalimentare campeggia un’ombra scura. Specialmente fra gli operatori della filiera dell’uva da tavola, infatti, la certificazione è spesso considerata una formalità burocratica, un’imposizione o una limitazione alle proprie potenzialità.
In realtà, il più delle volte certificare una produzione si traduce in un maggiore appeal sul mercato, in quanto garanzia di conformità e attenta valutazione non solo del prodotto, ma dei singoli processi attuati.
A che punto siamo oggi? Quali sono oggi le certificazioni per l’uva da tavola? E quali i vantaggi che un viticoltore può trarre? Ne abbiamo parlato con Carmelo Sigliuzzo, agronomo e Responsabile Certificazione Volontaria di Prodotto presso Check Fruit srl, tra le realtà leader in Italia per i servizi di certificazione e ispezione dedicati al settore agro-alimentare.
Da ieri a oggi com’è cambiato il mondo delle certificazioni?
Le certificazioni di qualità nell’agroalimentare hanno visto l’alba a metà degli anni ‘90, quando un po’ tutte le catene distributive cominciavano ad assumere importanza sui mercati nazionali e internazionali. Inizialmente si parlava esclusivamente delle norme ISO e non si disponeva ancora di tutte le certificazioni volontarie che al contrario abbiamo oggi.
Sul finire di quegli stessi anni, la rappresentanza dei produttori e quella dei retailer europei si sono unite, dando vita nel 2000 a EurepGAP poi diventato GLOBALG.A.P. nel 2007, in virtù della portata mondiale del fenomeno. Oggi GLOBALG.A.P. conta 200mila produttori certificati in tutto il mondo, con superfici anche abbastanza ragguardevoli. Questa certificazione riguarda la produzione di campo e la primissima manipolazione del prodotto fresco per il confezionamento. Accanto a questa, però, si possono annoverare altre certificazioni volontarie come BRC e IFS, che fanno riferimento soprattutto alle fasi post-raccolta quindi confezionamento e imballaggio, ma anche trasformazione dei prodotti, e riguardano di conseguenza anche l’industria agroalimentare.
Questi schemi di certificazione come tanti altri sono certificazioni business to business. Si tratta cioè di una attestazione che viene richiesta dal distributore a un’azienda per avere rassicurazioni in merito a sostenibilità, sicurezza degli alimenti, riduzione dell’uso di fitofarmaci, rispetto dei lavoratori e della gestione del lavoro, ma che arriva al consumatore senza traccia del produttore.
Guardando agli ultimi vent’anni, sicuramente questo sistema ha portato a una crescita complessiva del settore agroalimentare notevole. Per i produttori, però, credo sia arrivato il momento di implementare sistemi di certificazione del tipo business to consumers, che arrivano cioè direttamente dal produttore al consumatore e permettono di valorizzare meglio le filiere produttive, in particolare quelle corte.
Il mondo delle certificazioni è quindi cambiato. Quali sono i vantaggi che possono apportare oggi?
In primo luogo, le certificazioni oggi offrono una maggiore garanzia per il consumatore sempre più attento ai temi della sicurezza alimentare, dei principi etici che definiscono la gestione aziendale e della sostenibilità ambientale. A tal proposito, in particolare, questo sistema ha favorito un utilizzo più attento e oculato dei prodotti chimici di sintesi, portando nel tempo a preferire mezzi e metodi alternativi, che – oltre a risultare più ecologici – si sono dimostrati anche efficaci. E questo, a mio parere, si deve tanto anche all’agricoltura biologica. Come sistema di produzione, il biologico è nato sul finire degli anni ‘90, privo di armi di difesa se non alcune specifiche pratiche agronomiche. Tuttavia, grazie al crescente interesse anche economico suscitato dall’agricoltura biologica, il mondo della ricerca industriale e universitaria ha ricevuto una spinta significativa che ha permesso così di raggiungere risultati importanti e ottenere soluzioni efficaci non solo per il bio, ma anche per l’agricoltura convenzionale o la produzione integrata. Per fare un esempio, nella metà anni Novanta, si conosceva già il Bacillus thuringiensis, ma veniva impiegato solo contro alcune famiglie di lepidotteri a differenza di quanto avviene oggi.
Un sistema che ha quindi portato un vantaggio a tutti e ha cambiato il modo di produrre, non solo in un’ottica di maggiore sostenibilità ambientale, ma anche di rispetto delle politiche comunitarie come la Farm to Fork che – pur condivisibili nelle premesse e negli obiettivi – devono d’altro canto dare tempo e possibilità agli agricoltori di munirsi degli strumenti necessari.
Accanto a questo, un altro aspetto molto importante è quello che riguarda l’innovazione tecnologica. Sono infatti sempre più numerose le aziende agricole che utilizzano tecnologie innovative in campo. Si pensi alle centraline meteo, oggi presenti in quasi tutte le aziende, che permettono agli agricoltori di disporre di tutti quei dati meteo che poi, grazie ai sistemi informatici, consentono di intervenire in maniera preventiva e di conseguire una gestione il più razionale possibile. In tal senso, anche l’innovazione in agricoltura diventa strumento indispensabile per l’implementazione della certificazione volontaria di qualità come strumento di valorizzazione delle produzioni.
Ponendo l’accento sul comparto dell’uva da tavola, quali sono oggi le certificazioni principali?
Attualmente la principale certificazione per il comparto è la GLOBALG.A.P., con i suoi add-on, ovvero i moduli aggiuntivi. Tra questi, in particolare, il “GRASP”, ovvero il modulo che certifica la GLOBALG.A.P. Risk Assessment on Social Practice, valutando cioè l’applicazione di regole per la responsabilità sociale e quindi la gestione e sicurezza dei lavoratori, compreso tutto quello che concerne gli aspetti retributivi. Si tratta quindi di un ADD-ON etico sempre più richiesto dai clienti della distribuzione. Altrettanto richiesto è poi lo “SPRING”, modulo aggiuntivo che concerne la gestione delle acque per l’irrigazione.
In entrambi i casi, c’è stata una forte spinta da parte di GLOBALG.A.P. perché, a differenza di quanto avveniva all’inizio, quando la certificazione riguardava perlopiù la riduzione di uso di agrofarmaci, oggi il sistema guarda alla sostenibilità. E la sostenibilità oggi si declina anche come etica aziendale e riduzione dell’impatto ambientale, attraverso un razionale utilizzo delle risorse idriche e una ridotta emissione di gas serra in atmosfera. A tal riguardo, nella nuova versione dello standard GLOBALG.A.P., giunto alla sesta versione, c’è stato un po’ di irrigidimento su alcuni aspetti che al momento ne rendono difficoltosa l’applicazione, ma è anche vero che le nostre aziende sono molto ben attrezzate. Non solo: con questa nuova revisione, GLOBALG.A.P. introduce anche aspetti innovativi che riguardano la gestione dell’azienda intesa come realtà manageriale strutturata e dunque includendo alcuni elementi richiamati dalla ISO 9001 come quelli relativi al cosiddetto ciclo di Deming, chiamato anche PDCA (Plan, Do, Check, Act), che praticamente vede l’imprenditore come attento pianificatore dell’attività, in grado di migliorare con continuità e agire in modo da monitorare continuativamente i propri processi e migliorare le proprie performance.
Rappresenta un obiettivo molto alto, però introduce degli aspetti interessanti che confermano la tendenza per cui oggi non esiste più l’agricoltura di un tempo, fatta di terra e lavoro, ma l’imprenditore agricolo. Perché, come avviene ormai in qualsiasi altra attività produttiva, chi oggi gestisce un’azienda deve guardarsi attorno, analizzare cosa chiedono i mercati, quali sono i migliori metodi e mezzi di produzione e fare scelte imprenditoriali, come confermano le esperienze di tanti viticoltori.
Altra cosa importante è riconoscere la capacità che alcuni di loro hanno di fare filiera, aspetto centrale perché, considerate le dimensioni dei mercati attuali, non può esistere più il singolo agricoltore, ma una rete di produttori.
Fare filiera, però, purtroppo non è sempre facile a causa di una mentalità ancora molto ristretta. Fortunatamente, il ricambio generazionale degli ultimi anni apre un po’ a questa possibilità che – anche attraverso la creazione di organizzazioni di produttori e associazioni cooperative – permetta di certificare la filiera dell’uva da tavola, divenendo tra l’altro anche molto più accattivanti per il mercato.
Sempre nell’ambito del comparto, sarebbe interessante anche riuscire a certificare il residuo zero. Se ne parla da un po’ e qualcuno già lo sta facendo. Questa certificazione non si traduce semplicemente in una riduzione dell’uso degli agrofarmaci o nella capacità di produrre con residui chimici sotto il limite di quantificazione analitica dello 0,01 mg per kg di prodotto, ma significa raggiungere questo risultato grazie all’applicazione di un metodo di produzione sostenibile, che è figlio dell’applicazione della produzione integrata, frutto di una scelta oculata delle sostanze attive da utilizzare e dell’esperienza dei produttori/imprenditori più evoluti. Questo secondo me è un grande passo avanti che non è alternativo o concorrente all’agricoltura biologica, ma un metodo che nei prossimi anni premierà chi ha fatto seriamente produzione integrata per lungo tempo. Tra di loro, senza dubbio anche tanti nostri operatori perché i bacini di produzione dell’uva da tavola italiani – non solo pugliese, ma anche siciliano – hanno un grande livello di professionalità raggiunto grazie ai giovani colleghi agronomi e tecnici che assistono le aziende in campo, proponendo schemi di difesa e di produzione all’avanguardia.
Per quel che riguarda il residuo zero, manca tuttavia una guida unica nazionale. Il che rappresenta un limite, perché ciascun ente di certificazione – siamo una decina in Italia a certificare il “Residuo Zero” – ha una propria linea guida, che segue delle specificità. Personalmente sono stato anche fondatore di “Zero residui”, un’organizzazione di volontariato, riconosciuta come ente del terzo settore, che sta lavorando per costruire un percorso volto a diffondere la cultura del residuo zero come metodo di produzione sostenibile all’interno della quale abbiamo anche strutturato delle linee guida che sono state condivise anche con esperti e professionisti del mondo tecnico-scientifico, tra cui Vittorio Filì, Antonio Guario e alcuni docenti delle Università di Bari e Torino.
La questione comunque non riguarda solo l’uva da tavola, ma tutte le colture perché credo che se si condivide una linea unica dal punto di vista tecnico su come raggiungere l’obiettivo finale, tutti ne potrebbero trarre beneficio. In più si garantirebbe una maggiore trasparenza sui mercati per chi certifica e certificherà.
Per concludere, come evolverà il panorama delle certificazioni secondo te?
L’obiettivo è fare in modo che le certificazioni non vengano più richieste necessariamente ed esclusivamente dalle piattaforme distributive perché altrimenti permarrà il problema che il consumatore non sa quello che c’è dietro il sacrificio del singolo agricoltore e della filiera. La spinta dovrebbe quindi essere quella di riuscire a fare in modo che gli operatori mettano la propria faccia e dichiarino quello che fanno. Per questo il mio auspicio è che si creino nuovi spazi dove l’agricoltore possa avere certificazioni del tipo business to consumer. Al momento, non ci sono segnali di volontà da parte del mondo della distribuzione organizzata di arrivare a questo perché sul mercato dominano ancora le private label. Ma la sfida è proprio questa: anticipare i bisogni e le attese dei consumatori e segmentare i mercati con certificazioni diverse, con l’obiettivo di valorizzare aspetti innovativi e specifici. Per esempio, noi abbiamo l’IGP dell’uva da tavola pugliese, ma sappiamo bene che non è molto utilizzata perché costruita sulla storicità e su varietà che purtroppo ormai hanno poco appeal sul mercato. Accanto alla revisione del Disciplinare potrebbe essere vincente valorizzare la capacità di un territorio di promuovere le proprie produzioni, il proprio modo di produrre uva in quel luogo, valorizzando i prodotti “buoni e sostenibili”. Naturalmente però in forma aggregata e quindi dopo aver costituito una filiera che sia spendibile sul mercato, trasparente e con contenuti di valore senza aspettare che lo facciano gli altri per noi.
Ilaria De Marinis
©uvadatavola.com