Comparto dell’uva, cambiare prospettiva

Ospite oggi a LUV Fiera, l’agronomo cileno di fama internazionale Oscar Salgado offre un'analisi dettagliata degli sbocchi emergenti, delle difficoltà nella catena di distribuzione e delle strategie future per il comparto italiano

da uvadatavoladmin
Comparto dell'uva SALGADO

Dall’Asia alle Americhe, per i produttori italiani di uva da tavola potrebbero aprirsi sbocchi commerciali inediti e promettenti. Un approccio imprenditoriale non sempre lungimirante, forte concorrenza e inadeguata gestione del post-raccolta sembrano però frenare il potenziale delle uve prodotte nel Belpaese. Ne parliamo con Oscar Salgado, agronomo cileno di fama internazionale e International technical advisor per Proteku Europa, che – protagonista proprio nella giornata di oggi di LUV Fiera – analizza stato attuale e prospettive future del comparto dell’uva da tavola italiano. 

Quali sono i più interessanti mercati extraeuropei raggiunti dai principali player internazionali?

Per quanto riguarda l’export di frutta dall’emisfero Sud, oggi i principali player extraeuropei sono Cile, Perù, Brasile e Sudafrica. Ci sarebbe in teoria anche l’Australia, che però in concreto si concentra sul mercato regionale. Senza dubbio per Cile e Perù – e in qualche modo per il Brasile – il mercato americano è di gran lunga il più importante, non solo in termini di volumi, ma anche per la facilità di imballaggio e, non ultimo, per i ritorni commerciali. In generale, si tratta di un mercato molto attraente. Accanto a questi, un altro mercato al quale solo alcuni Paesi dell’emisfero meridionale hanno accesso è la Corea del Sud, dove la negoziazione è rapida, le quotazioni sono fisse e i prezzi corrisposti soddisfacenti, se la qualità risulta in linea con determinati parametri. D’altra parte, per avviare relazioni commerciali con il Paese asiatico bisogna definire programmi precisi e avere un accordo a livello istituzionale poiché ci sono molte restrizioni fitosanitarie.
Altro sbocco commerciale per Cile, Perù, e in qualche modo anche per il Sudafrica, è ancora la Cina, sebbene si tratti di un mercato composto da grossisti, con mercati aperti, in cui la variabilità dei prezzi è quindi molto alta. In generale, si paga bene per la frutta e tutto ciò che è considerato premium. Nel Paese del Dragone, infatti, la frutta migliore viene venduta sul mercato libero e con marchi conosciuti, conferendo interesse a questo tipo di prodotto, sebbene oggi la competizione sia altissima. Per alcuni Paesi come il Perù e il Cile un altro mercato di interesse è poi rappresentato dal Giappone, dove i volumi movimentati sono bassi, ma la qualità è elevata. Cosa succede invece con l’Europa? In generale l’intero continente è considerato un mercato dove storicamente i discount, specialmente tedeschi, puntano al prezzo. Anche le condizioni in cui arriva la frutta dell’emisfero Sud non sono buone. In sostanza, parliamo di un mercato nel quale è molto difficile differenziarsi e ottenere una premialità. A complicare il quadro vi sono poi i limiti massimi di residui (LMR) vigenti in Europa, e specialmente in Germania, che costituiscono un disincentivo per l’emisfero Sud. Pertanto, personalmente tendo a relegare il mercato europeo solo come quarta opzione, dove tra l’altro riversare produzioni che non trovano nessuno spazio in altri mercati. Diversamente da quanto accadeva in passato in Europa, dove lo schema prevedeva il susseguirsi di diverse figure (importatore, intermediario, ulteriore soggetto e supermercato), oggi questa catena si sta riducendo, per via di importazioni dirette da parte di alcuni supermercati.
Lo stesso vale per l’India, unico Paese dell’emisfero Nord che raccoglie nello stesso periodo dei Paesi dell’emisfero Sud e che, anche grazie all’introduzione di nuove varietà, giocherà presto un ruolo preponderante in Europa e alla quale viene già destinato circa il 70% della sua frutta. Sebbene con la produzione attuale l’India non abbia standard qualitativi tali da poter competere con gli altri Paesi, in un prossimo futuro con l’ingresso di nuove varietà – le stesse già presenti in Italia e non solo – credo che questo Paese cambierà significativamente gli equilibri. 

Comparto dell'uva luv

A livello globale, quali sono o saranno i mercati più interessanti nei prossimi 10 anni?

Per l’Europa si tende a pensare che i mercati più interessanti saranno quelli asiatici e cinese. Bisogna tuttavia considerare che la Cina sarà in grado di raccogliere per 12 mesi all’anno: trovandosi nell’emisfero Nord, il Paese ha infatti una stagione di raccolta che può iniziare tra metà e fine marzo nella zona dello Yunnan – una zona tropicale – ed estendersi fino a ottobre prima che inizi il freddo, prolungandosi ulteriormente fino a gennaio o febbraio con l’uva da tavola che viene conservata nelle celle. Poi il ciclo ricomincia con la raccolta nello Yunnan. In un simile contesto è facile ipotizzare che, disponendo di prodotto per tutto l’anno, la Cina inizierà a esportare. Oggi si suppone che esporti circa 50 milioni di casse, una cifra bassissima se si considerano i volumi prodotti e la superficie vitata cinese oggi stimata intorno ai 730mila ettari. Come si traduce tutto questo per l’Europa? Senza dubbio dovrebbe rappresentare un’esortazione a consolidare le relazioni commerciali con Paesi come Medio Oriente, Sudafrica e Israele e a esplorare mercati ancora accessibili, ma poco considerati, come quelli americano e canadese. 

Prima, però, andrebbe risolto il problema tutto europeo, in particolare di Italia e Spagna, relativo alla gestione del post-raccolta, ancora molto rudimentale. Oggi, un grappolo di uva raccolto in questi Paesi a fine giugno o luglio, venduto sul mercato con l’imballaggio estivo (che è un disastro), appare di gran lunga peggiore delle produzioni di Perù o Cile che hanno viaggiato per almeno 25 giorni e sono rimaste bloccate 5 giorni tra raccolta e imbarco, senza poi considerare i 5-10 giorni trascorsi tra l’arrivo a destinazione e l’acquisto da parte del consumatore finale. 

Post-raccolta a parte, l’Europa deve difendere il proprio mercato più vicino e posizionarsi in Medio Oriente. A questo proposito, bisogna poi pensare che le superfici di uva da tavola sono maggiori nell’emisfero Nord che in quello Sud. Non va dimenticato il potenziale dell’Egitto, che lo ha già dimostrato, o il Marocco più focalizzato sugli agrumi. Nel complesso vediamo sempre più uva dalla Turchia in Germania. Anche Uzbekistan e Azerbaigian, come tutte le ex repubbliche sovietiche, hanno una quantità enorme di uva da tavola. Ci sono produttori in Algeria che hanno grandi volumi e stanno facendo ciò che dovrebbero fare Italia e Spagna: arrivare in Germania e Inghilterra con programmi molto specifici. Di qui ai prossimi anni, dunque, la competizione sarà molto dura e senza migliorare il post-raccolta per lunghi viaggi e le modalità di conservazione dell’uva da tavola, il mercato in Europa risulterà sempre più ristretto con molte sfide, perdite e danni collaterali.
Non vedo ragioni per cui importare grandi volumi di frutta da ottobre, novembre e dicembre se possiamo conservare le nostre produzioni in buone condizioni rispettandone la qualità. Prendiamo l’esempio degli americani: hanno la stessa situazione di Italia e Spagna, ma credono nella tecnologia e non nei paradigmi. In Italia, si dice sempre di avere alle spalle 40-50 anni di esperienza, ma – come rispondo sempre – credo si tratti piuttosto dell’esperienza di un solo anno ripetuto 49 volte. Per consolidarsi sui mercati attuali in Europa, eliminando la concorrenza, e al contempo orientandosi verso Medio Oriente, Sudafrica e Africa, Italia e Spagna devono introdurre tecnologie innovative, specialmente quelle legate alle celle frigo, ai materiali da imballaggio e al confezionamento. Si tratta di aprirsi a nuove vedute e pensare che la mente è come un paracadute: se non la apri, non funziona.

Qual è la tua visione del comparto dell’uva da tavola italiano?

Credo che attualmente il comparto dell’uva da tavola italiano sia ancora dominato da piccole realtà, con un numero molto elevato di addetti ai lavori che guarda al futuro solo in relazione all’ambito varietale, restando però indietro in termini di tecnologie di confezionamento e mantenimento della qualità. In compenso, possiamo dire che per quanto riguarda l’innovazione varietale si è assistito a una enorme evoluzione: se 10 anni fa, parlando di uve seedless, in Italia ti guardavano strano, oggi possiamo dire che il cambiamento è ormai assimilato. Anche in questo caso, però, si deve osservare un dato. L’Italia oggi dispone di molteplici programmi di miglioramento genetico, ma non ha ancora fatto il salto in avanti: attuare cambiamenti di tipo strutturale. Gli americani negli anni ’80 hanno cambiato i sistemi di conduzione e hanno definito un sistema che oggi continua a dar loro benefici in termini di volume, qualità e condizione degli impianti. Nel Belpaese, invece, ogni volta che si arriva con una nuova idea, la risposta è: “No, grazie” o ancora “Tu vieni dall’emisfero Sud, lì si che serve quello che proponi per il post-raccolta. Noi siamo vicini ai mercati di destinazione delle uve da tavola”. E continuano a imballare con l’imballaggio estivo senza sacchetti, senza generatore di SO2. Credo che in Italia il comparto dell’uva da tavola sia segnato da una grande dicotomia, perché è fervido, in piena espansione e si sta consolidando con grandi produttori, ma manca una critica importante su come migliorare il mantenimento post-raccolta dell’uva da tavola. 

Quali pensi siano i principali punti di forza del comparto dell’uva da tavola italiano

Senza dubbio, proprio come la California, il grande mercato per l’Italia è l’Europa e si deve imparare a proteggerlo. Questo rappresenta un enorme punto di forza, perché l’Italia potrebbe mostrarsi capace di dominare il mercato puntando a essere il migliore fornitore di uva del mondo, e al contempo una debolezza, perché rende più pigri e porta a vivere sugli allori. È vero, l’80% delle uve da tavola italiane va in Europa, ma se veramente gli italiani sono i migliori credo che sia necessario puntare sulla capacità tecnica: bisogna credere nelle nuove generazioni, viaggiare e lasciare da parte l’arroganza. Stiamo imparando cose nuove ogni giorno e ogni giorno ci rendiamo conto di sapere sempre meno. Il valore aggiunto sarà riuscire a capire dove va il mercato, cosa chiede davvero il consumatore: non quello che compra mia nonna quando va a fare la spesa nel paesino, ma cosa vogliono il consumatore tedesco, inglese, belga, cosa vuole il cliente in Europa e nel mondo. E torno a ribadire che gli italiani per far questo devono essere capaci di migliorare il post-raccolta dell’uva da tavola che deve poter durare molto di più sugli scaffali. Nessuno lavora a questo, ma forse perché gli italiani non vanno a vedere la loro frutta sugli scaffali in Germania: qui l’uva italiana è un disastro, a causa del caldo, del cambiamento climatico e di altri fattori. E tutto questo inevitabilmente si paga a caro prezzo. 

Comparto dell'uva SALGADO luv

A tuo parere quali mosse dovrebbe allora compiere il comparto dell’uva da tavola italiano per raggiungere il successo?

In primo luogo, dovrebbe dotarsi di un’associazione di produttori di uva da tavola forte e coesa che li rappresenti, li convochi, li riunisca e sia capace di fare attività di lobbying e di promuovere lo sviluppo di nuove tecnologie. Paesi produttori come California, Cile, Perù, Sudafrica sono riusciti a raggiungere certi livelli proprio perché hanno una forte conduzione sindacale. Senza sindacato, senza unità non c’è futuro per tutti, ma solo per alcuni. Per questo direi che questa è la più importante delle mosse strategiche da adottare. 

Accanto a questo, sarà decisivo promuovere l’amore per l’agricoltura, far capire a Bruxelles, alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia che oltre a litigare con il Sudafrica e con il Marocco per gli agrumi, è importante dimostrare che l’agricoltura è un settore strategico e va difeso. Per questo credo che siano oggi sempre più necessarie associazioni di produttori unitarie e, nel caso specifico, un’Associazione dei Produttori Italiani che rappresenti tutta la nazione, inclusa la Sicilia, facendo fronte comune. Non ditemi che non si può fare. I produttori in California sono italiani, croati, e alcuni greci. Cos’è successo a questi produttori? Evidentemente quando hanno attraversato l’oceano hanno anche cambiato mentalità. Essere immigrati, d’altra parte, ti fa avvertire necessità diverse e ti porta a guardare indietro per non dimenticare le proprie radici e insieme a guardare avanti, al futuro. In Italia, invece, vedo che nel settore agricolo, specialmente nella produzione dell’uva da tavola, spesso non si guarda né indietro né avanti, ma solo di lato per competere con il cugino, essere migliori del vicino e vantarsi nel bar del paese. Eppure si tratta di un comparto che richiede miglioramento continuo, innovazione e sperimentazione

In fin dei conti, ciò che emerge è questo: il peggior nemico della produzione dell’uva da tavola siamo noi stessi, i tecnici e i produttori dell’uva da tavola.

 

Ilaria De Marinis
© uvadatavola.com

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