Mondo produttivo e commerciale parlano lingue diverse

Giandomenico de Mola suggerisce ai produttori di unirsi per far valere le proprie esigenze. 

da Redazione uvadatavola.com

Giandomenico de Mola, agronomo e ispettore per le certificazioni agro-alimentari per conto di RINAagroqualità, suggerisce ai produttori di unirsi per far valere le proprie esigenze. 

 

Quali sono le caratteristiche che un prodotto ortofrutticolo deve possedere per essere poi commercializzato attraverso i diversi canali esistenti?

Per il mondo della produzione primaria, e parliamo quindi di aziende agricole che sono il primo anello della filiera, la certificazione più richiesta e la GLOBALG.A.P., soprattutto dalla GDO italiana ed estera, in particolare da quella tedesca.

Esistono, inoltre, delle certificazioni che non vengono richieste dalle catene, ma che rappresentano una libera scelta da parte dell’azienda agricola: ad esempio la certificazione del biologico. Bisogna chiarire il fatto che esistono due tipi di certificazioni: di sistema e di prodotto. La prime esaminano e normano tutti i diversi step che portano all’ottenimento del prodotto, mentre le seconde valutano solo l’ultimo step: ovvero il prodotto.

La certificazione GLOBALG.A.P. rientra in quelle di sistema: essa valuta come si gestisce l’azienda agricola ed osserva una pluralità di aspetti. Non valuta solo la produzione come prodotto finito richiedendo analisi che restituiscano risultati conformi ai limiti di legge. L’idea sottesa da questo tipo di certificazione è che il prodotto commercializzato dalle aziende certificate è di categoria superiore, perché rispetta una serie di norme che riguardano: igiene, salubrità del prodotto, sicurezza sul lavoro, tracciabilità, conduzione tecnica e quaderni di campagna.

Un approccio di questo tipo considera la qualità del prodotto come il risultato della gestione complessiva dell’azienda. Discorso completamente diverso è la certificazione Residuo Zero; essa si focalizza solo sul prodotto finito. In questo caso noi accerteremo che l’uva – ad esempio – non abbia residui di prodotti fitosanitari di sintesi che siano superiori ai limiti di rilevabilità per legge. In questo caso stiamo dunque parlando di un prodotto superiore alla norma per quanto riguarda la sua salubrità, che sarebbe quasi paragonabile al Bio. La certificazione Bio è invece una certificare di processo.

Abbiamo parlato di residui ed è proprio questo l’argomento del nostro focus, la GDO spesso fa leva sul numero dei residui per vendere di più?

La GDO italiana si distingue dalla GDO estera perché supera il concetto del numero dei principi attivi. Fare leva sul numero dei principi attivi è un’impostazione puramente commerciale. Il punto è che, purtroppo o per fortuna, i nostri produttori sono molto legati alla GDO tedesca in quanto una consistente porzione del nostro prodotto esportato finisce sulle tavole tedesche. E proprio la GDO tedesca, durante questi ultimi 15 – 20 anni, ci ha abituato a questo modo di pensare. Non tutta la GDO, però, lavora in questo modo. Ad esempio Conad e Carrefour operano attraverso i controlli di filiera. Hanno delle aziende che producono ortofrutta a marchio, e controllano personalmente i produttori e i processi di produzione interni alla filiera. I loro controlli non sono focalizzati esclusivamente sui residui o sugli LMR, per i quali seguono i limiti ammessi per legge e i disciplinari di difesa integrata.  

 

Sì, dipende molto dalla visione. Il punto – a mio avviso – è questo: alcune catene di distribuzione, facendo leva sulla salvaguardia della salute umana hanno di fatto inventato il numero massimo di residui, non previsto da nessun organo italiano o europeo di salvaguardia della salute.

Parlare solo di limitare il numero dei residui, inoltre, non è agronomicamente corretto; se per vendere la mia frutta sono costretto ad usare al massimo, ad esempio, 5  principi attivi, tenderò ad utilizzare sempre gli stessi prodotti, provocando così l’insorgere di resistenze.

La domanda per te è: come se ne esce da questo corto circuito?

Se ne esce avviando una campagna di comunicazione per spiegare tutto ciò. Associazioni di produttori, OP e grossi gruppi capaci di dare del “tu” alla GDO dovrebbero avere l’autorevolezza e la capacità di fare massa critica per avanzare delle controproposte. Se io ho in mano buona parte della produzione italiana di uva da tavola e avanzo delle richieste, la GDO non puoi non ascoltarmi. In questo settore il GAP avviene anche tra chi si occupa di qualità e i buyer della stessa GDO. Spesso i secondi non ascoltano ciò che dicono i primi, perché l’obiettivo dei buyer è solo uno: comprare merce al prezzo migliore per rifornire quotidianamente i loro punti vendita.Essere compatti vuol dire farsi ascoltare.
Qui ovviamente giungiamo ad un nodo atavico per il settore produttivo delle uve da tavola: la polverizzazione. Lo stesso che provoca – di anno in anno – la crisi a causa dei prezzi troppo bassi. Quando ci si lamenta dei prezzi molto bassi per la produzione vuol dire che non siamo stati capaci di fare cartello. L’offerta è frammentata e i buyer giocano sulla frammentazione per ottenere ciò che vogliono. Che si tratti di qualità della merce, di numero di residui o di prezzi, il problema è solo uno: c’è bisogno di interfacciarsi in modo compatto con questi grandi gruppi per avere autorevolezza. La GDO sa che l’uva italiana non è sostituibile per la sua imbattibile qualità, è un prodotto unico perché capace di coniugare qualità e prezzo. Se la GDO continua ad acquistare merce dai produttori italiani è perché il materia di numero di aziende certificate e di attenzione alla salubrità del prodotto siamo i migliori. Difatti, se si consultano i documenti dell’agenzia europea di sicurezza alimentare, l’Italia è sempre al primo posto, non ci supera davvero nessuno. Se tutto ciò avviene non si tratta certo di fortuna. 

 

Secondo te avrebbe senso immaginare un confronto tra mondo produttivo e commerciale?

Secondo me bisognerebbe convocare una “tavola rotonda”, degli “stati generali” con il Ministero, e delle associazioni di categoria. Ci sarebbe bisogno di far sedere ad un unico tavolo i rappresentanti di tutta la filiera per poter creare una sintesi tra le diverse necessità. Anche perché queste problematiche non riguardano solo l’uva da tavola o solo la Puglia, ma l’intero settore ortofrutticolo italiano.

 

Infatti, laddove i gruppi di produttori sono riusciti ad imporre i propri interessi alla GDO non ci sono di questi problemi. vedi l’esempio dato da Melinda. 

Melinda è un ottimo esempio di produttori capaci di fare “cartello”. Le 16 cooperative della “Val di Non” e della “Val di Mele” sono riusciti a fare massa critica – di cui abbiamo parlato in precedenza – e hanno detto alla GDO: “Se vuoi puoi commercializzare le mele delle Polonia, sono ottime e a buon mercato, ma se vuoi le mele con il nostro marchio decidiamo noi il prezzo. Ti assicuro che i melicoltori della Melinda sono anche più polverizzati dei nostri viticoltori da tavola. Perché lì si parla di superfici medie che non raggiungono nemmeno l’ettaro. Ovviamente stiamo parlando di un consorzio che funziona veramente. Il Sud paga le conseguenze della propria disorganizzazione e incapacità di collaborare. Se solo i 6 più grandi produttori pugliesi di uva da tavola – che coprono 70% della filiera – cominciassero a parlare prima tra loro e poi con i buyer e con l’ufficio qualità delle GDO sarebbe già un passo importante. Sarò la millesima persona che parla di queste cose: ma magari “repetita iuvant”.

 

Autrice: Teresa Manuzzi
Copyright: uvadatavola.com

Articoli Correlati