Tonino Melillo, consulente esperto in viticoltura da tavola, parte analizzando l’ultima campagna dell’uva da tavola ed evidenzia limiti e potenzialità del settore. Infine auspica che il comparto si metta in discussione.
L’intervista, pubblicata sul bimestrale “Uva da Tavola – magazine” (n°1 del 2020) riporta spunti molto interessanti.
“Abbiamo preso un cazzotto, abbiamo vacillato, siamo caduti. Ora dobbiamo rialzarci. Che sia chiaro, non abbiamo perso il match, ma è giunto il momento di capire come proseguire e vincere l’incontro. Una crisi, o forse sarebbe meglio dire un cambiamento è in atto nella nostra viticoltura, dobbiamo rendercene conto, comprenderlo e reagire per poter risistemare le vele a seconda del nuovo vento che sta spirando”. Così Tonino Melillo, tecnico per Agrimeca Grape and Fruit Consulting, descrive la passata stagione dell’uva da tavola e ne approfitta per approfondire tanti aspetti di un settore che deve mostrarsi capace di interpretare le nuove richieste di mercato.
Le trasformazioni a cui stiamo assistendo nel settore dell’uva da tavola sono così veloci che talvolta non ci è possibile coglierne il significato reale. Regna più che altro un senso di smarrimento.
I cambiamenti della commercializzazione
Abbiamo sempre prodotto non tenendo conto del consumatore finale, ma solo del commerciante che doveva acquistare il nostro prodotto. Ora ci troviamo in una fase nella quale il consumatore da un lato reclama il “chilometro zero” e dall’altro persegue un solo obiettivo: acquistare la merce migliore al minor prezzo. Possiamo ovviare a questa situazione raccontando la storia, i sacrifici, l’innovazione, l’ingegno e le preoccupazioni che sono dietro al nostro prodotto. Dobbiamo lavorare per distinguerci e rasserenare il consumatore circa la bontà e la salubrità dell’uva italiana. Invece ci affanniamo per ottenere un prodotto consono esclusivamente alle richieste della GDO. Queste richieste rappresentano a loro volta un problema, ma non si tratta del problema reale. La GDO fa il suo lavoro. Noi facciamo sempre il nostro lavoro fino in fondo? La GDO si piega, ad esempio, alle richieste della Melinda, per vendere le sue mele secondo le sue regole. Il nostro comparto invece non è riconoscibile sul mercato e non abbiamo la stessa offerta capilare dei marchiati Melinda. Dobbiamo cominciare a guardarci dentro per capire quali sono le nostre criticità ed aggiustare il tiro. Se sono affezionato ad una determinata varietà devo essere anche capace di venderla, di raccontare quello che faccio in campo: per prima cosa devo vendere la mia storia, e non solo una volta, ma ogni anno.
In foto: uva Cotton Candy
Il consumo di frutta e verdura in questi anni sta cambiando e calando
Le campagne pubblicitarie ed i mutati comportamenti alimentari stanno inducendo sempre di più i consumatori a pensare che è più “sano” bere un succo di frutta invece che mangiare un frutto. Non esistono campagne di comunicazione mirate e ben strutturate per abituare i bambini al consumo di frutta fresca. Dovremmo analizzare questo successo altrove. In California, nel momento in cui i consumi di uva sono calati si è subito passati alla controffensiva. I produttori si sono autotassati di qualche centesimo di dollaro a cassetta ed hanno dato vita ad un’associazione che aveva il compito di promuovere il prodotto. Hanno scoperto che la nicchia più importante era costituita proprio dai bambini ed hanno promosso messaggi pubblicitari destinati a quel preciso target, non tralasciando l’aspetto varietale. Le cultivar Flame seedless e Cotton Candy sono pensate per il consumo da parte dei più piccoli. Tutto il comparto ha cominciato a lavorare di fantasia. Noi abbiamo tante capacità, la viticoltura italiana rispetto a quella di altri Paesi produttori è estremamente moderna e innovativa, ma il processo innovativo ha bisogno di rigenerarsi continuamente. Quello che abbiamo realizzato sinora non è sufficiente, c’è il rischio che i nostri competitors riconoscano e reinterpretino il nostro estro traendone vantaggi. In tutti i Paesi che visito per lavoro, sia in Nord Africa che in Est Europa si registra un calo del consumo di uva. Le medie dei consumi sono tutte più basse rispetto al passato. Allo stesso tempo, però, la coltivazione dell’uva da tavola si espande. Grecia e Turchia (un tempo dedita esclusivamente alla produzione di uva sultanina) aumentano i loro ettari di vigneti ad uva da tavola. Paesi aggressivi dal punto di vista dei prezzi cominciano a coltivare uva: Macedonia, Slovenia, Croazia, Moldavia, Bulgaria, Ucraina, Ungheria, Uzbekistan. Le realtà nuove erodono il nostro stesso bacino di consumatori. Un tempo la nostra uva arrivava in Polonia, in Cecoslovacchia. Oggi i nostri nuovi competitors riescono a realizzare delle produzioni low cost. Un produttore di questi nuovi Paesi che vende uva a 0,90 euro/kg fa salti di gioia perché sta guadagnando almeno 0,40 euro al kg. I produttori italiani, in molti casi, se vendono uva a 0,90 euro come minimo registrano una perdita di 0,10 euro/kg. Il mese di dicembre un tempo valeva l’intera campagna per i prezzi che si realizzavano, oggi invece è un mese stagnante, morto. Fino a qualche anno fa è stato relativamente “facile” vendere il nostro prodotto perché la maggior parte di esso era destinato al mercato interno, mentre la restante parte finiva in Germania. Oggi, invece, il Paese tedesco importa meno dell’Italia e ha ridotto i consumi.
L’aggregazione, quel passo che non riusciamo a compiere
Non si parla d’altro che di aggregazione, eppure pare che il comparto produttivo sia sordo a riguardo. La mancanza di aggregazione dà vita ad uno dei problemi più gravi del settore: mancata pianificazione con l’incognita di cosa produrre. I produttori che ad inizio campagna già conoscono la destinazione del proprio prodotto sono più unici che rari. Le domande da farci ad inizio campagna dovrebbero essere: Il mio prodotto andrà sul mercato nazionale o estero? Su quale mercato estero? Germania, Nord Europa, Est Europa, Stati Uniti d’America? Produzione e commercializzazione non comunicano. Le informazioni non circolano. Nessuna packing house (magazzino dell’esportatore) comunica i dati delle lavorazioni ai suoi produttori, indicando i risultati buoni, medi e scarsi ed incrociando mercati e varietà. Solo lavorando tutti insieme riusciremo a sciogliere questo nodo, impareremo, forse, a gioire anche per i risultati positivi conseguiti dagli altri e la smetteremo di fregarci le mani per le disgrazie altrui.
Come le annate buone possono diventare un problema
Il 2017 è stato ottimo dal punto di vista della qualità e dei prezzi e questo ci ha fatto ben sperare per il futuro. Invece il 2018 ed il 2019 sono state le peggiori annate della storia della nostra viticoltura. Nell’ultima stagione, un maggio caratterizzato da condizioni climatiche avverse ed una commercializzazione cominciata con 15 giorni di ritardo, hanno consentito ad altri attori di imporsi sul mercato. La lezione che il 2019 ci consegna è che fino a quando la packing house e l’agricoltore non riusciranno a comunicare, non si invertirà la rotta. Il 2017 per noi è stato una condanna perchè molti produttori pensavano che l’uva Italia sarebbe stata la varietà cardine per il futuro. Ma è stata una stagione al contrario, dove le apirene si vendevano a prezzi bassi e l’uva con seme a prezzi molto alti. É accaduto quello che succede in borsa: quando il titolo arriva all’apice c’è da vendere perché vuol dire che comincerà a calare a breve. Nel corso del 2017 tra noi commentavamo: “Questo anno lo pagheremo caro”.
Territorio polverizzato vuol dire uva con caratteristiche differenti
Dobbiamo prendere atto del fatto che abbiamo aziende medio-piccole che possiedono caratteristiche diverse. Ogni viticoltore ha i suoi “segreti” per produrre ed è convinto che il suo metodo sia il migliore del mondo, così come lo è il tecnico che segue il suo vigneto. Sbagliato, a mio avviso, è anche quanto sta accadendo in Puglia, sulla costa jonica.Negli ultimi anni si registra una corsa ad ingigantire le aziende. Queste sono operazioni che devono tener conto delle proprie competenze e possibilità. Posso anche avere un’azienda di 200 ettari, ma devo essere sicuro di poter tagliare tutto il prodotto e di non perderne la metà perché non sono riuscito ad effettuare tutte le corrette operazioni, ad eseguire i trattamenti per tempo o non ho trovato il personale necessario. Abbiamo bisogno di aziende che lavorino bene su 100 ettari, non di produttori che lavorino male su 200 ettari. L’incapacità di offrire un prodotto standardizzato permette al Regno Unito di vendere l’uva italiana ai prezzi più bassi rispetto alle uve spagnole perché non riusciamo ad offrire la qualità che desidera. Quando si parla di polverizzazione e di aziende troppo piccole dobbiamo capire che la strada da percorrere non è quella di ingigantirsi a prescindere. La nostra pecca è che siamo agricoltori e non imprenditori. Ci piace andare in campagna, toccare i grappoli, togliere le foglie. Tutto quello che si colloca al di fuori di questo panorama ai nostri occhi non è leggibile perché non abbiamo le competenze necessarie per pensare ed agire da veri e propri imprenditori.
Nuove varietà e conferimento
L’agricoltore sta accettando un po’ supinamente il conferimento, che a mio avviso stiamo gestendo male. Viviamo con il terrore che qualcuno se ne approfitti. Se la via è quella del conferimento allora esigo che il conferitore mi faccia conoscere il destino del prodotto che ho fornito. Ho il diritto, oltre che la necessità, di questi dati, altrimenti possiamo decidere il prezzo in campagna. Purtroppo non esistono al momento norme che disciplinino questi rapporti. Quando si prende come esempio la Spagna, non si tiene conto delle loro dimensioni aziendali, il confronto è impossibile. Vendere a blocco il prodotto conveniva un po’ a tutte la parti in causa, ma non è pensabile che si possa continuare così. Il lavoro del produttore deve tornare ad essere remunerativo, altrimenti il settore è destinato a “rompersi”. Sono sempre di più le aziende in difficoltà per scelte sbagliate.
Le varietà seedless, qualità e pianificazione
Indubbiamente i consumatori sono maggiormente orientati verso il consumo delle apirene. Poco male, perché se riduciamo gli ettari ad uva Italia riusciremo a stare al passo. C’è però da capire insieme quali sono le nuove varietà da impiantare. Si tratta di una pianificazione da fare tutti insieme. C’è anche da dire che a causa della pratica italiana degli impianti illegali sempre più breeder evitano di proporci le nuove varietà. Così a noi restano i mercati marginali, più poveri, dove magari non fanno tante domande.
La qualità
Purtroppo non abbiamo molti tecnici che curino la qualità in modo specifico. Eppure, capire cosa accade dal momento in cui l’uva viene tagliata è fondamentale. Il concetto di qualità è però relativo: c’è chi dice che la qualità è nel colore, chi nel grado zuccherino, chi nella croccantezza. Ma chi vende uva in Nord Europa sa che in quei Paesi l’uva si consuma bianca e poco dolce, mentre i consumatori mediterranei prediligono uva di colore più giallo e con più zuccheri. Altri ancora parlano del calibro. Ma il calibro della bacca esige un prezzo adeguato, si deve quindi vendere quel prodotto ad un mercato che è disposto a pagare di più. Inoltre, se un anno viene venduta dell’uva con le bacche di un certo calibro, quello sarà il punto di partenza per il calibro dell’anno successivo. Ancora una volta conoscere il mercato di riferimento consentirebbe al produttore di fare le dovute scelte già nel corso della campagna. Se l’uva andrà sulle tavole dell’Europa dell’Est e verrà venduta a 0,60 euro/kg, posso decidere di risparmiare sulla lavorazione e sulle operazioni di toelettatura. Oppure di ridurre alcuni trattamenti o gestire meglio l’acqua. Mi permetto di non badare agli aspetti che non interessano i consumatori del mio mercato di riferimento.
A rischiare sono le aziende di medie dimensioni
Se il comparto italiano dell’uva da tavola non dovesse recuperare terreno, più che i piccolissimi, che sono produttori che lavorano in campagna come secondo lavoro, il rischio maggiore lo corrono i medi. Quando c’è una crisi in agricoltura a soffrire sono coloro che hanno aziende di 10-20 ettari. Perché, oltre che pensare a vivere in modo dignitoso, devono occuparsi degli operai, delle tasse, degli eventuali strumenti, del rinnovamento aziendale con altri terreni su cui poter impiantare. Le aziende intermedie sono le più vulnerabili perché hanno bisogno di personale e quindi i costilievitano.
Diversificazione
Indubbiamente alcuni areali sono stati abbondantemente sfruttati per la coltura dell’uva da tavola. Anche la pratica dell’espianto e dell’impianto non ha più successo. Avevamo sconfitto le virosi, ma negli ultimi anni il problema si sta ripresentando così come è accaduto per le malattie del legno. Per realizzare l’impianto c’è bisogno di scassare, macinare le pietre, mettere le reti ed i teli. Supporti che altri Paesi non usano. Si tratta di spese che sempre più spesso non riescono ad essere ripagate. Dobbiamo capire che anche la coltura dell’uva da tavola segue un ciclo. Questo territorio ha dato quello che poteva, differenziare la produzione potrebbe essere una strada percorribile per godere di quel reddito che prima era garantito solo dall’uva da tavola.
Consigli per il futuro
Le due direttrici da seguire per il futuro sono indubbiamente un’aggregazione intelligente e la consapevolezza delle proprie potenzialità da spendere sul mercato. Inoltre dobbiamo capire in che modo arriva il loro prodotto sui banchi della GDO. Solo ora ci stiamo rendendo conto che spesso il prodotto giunge sui banchi ortofrutta in modo immondo, con grappoli manipolati più e più volte dai consumatori che cercano di selezionare l’uva migliore, rendendola invendibile. E pensare che i produttori nel vigneto hanno girato i grappoli uno ad uno per permettere al sole di arrivare su ogni parte. Dobbiamo prendere spunto dai Paesi che in tal senso si sono mossi per avere cura anche di tutte le fasi del post raccolta. Dobbiamo impegnarci a migliorare e ridurre i passaggi della filiera. La nostra purtroppo è un’agricoltura vecchia, che vuole però gareggiare in un campionato di formula uno. Ma se le premesse sono queste non possiamo competere. L’esperienza però mi dice che abbiamo tutti gli strumenti per reagire. Innanzitutto dobbiamo smetterla di dare la colpa agli altri, ogni parte deve fare un passo in avanti. Sarebbe interessante se si riuscisse a realizzare un’associazione di produttori, venirsi incontro ed agire in modo chiaro e con lungimiranza. Il futuro per il settore esiste, ma bisogna cambiare passo per mettere a sistema e valorizzare le nostre potenzialità e competenze che difficilmente si ritrovano in giro per il mondo.
Autore: Teresa Manuzzi
@uvadatavola.com