Tra nuovi player pronti ad affacciarsi sul mercato e consumatori sempre più esigenti, il comparto della viticoltura da tavola italiana (e non solo) si ritrova oggi a dover fare i conti con uno scenario articolato, dove per fare la differenza si rende sempre più necessario offrire un prodotto di qualità elevata. Il capitale umano di conoscenze non manca, come pure le capacità tecniche e agronomiche. La vera sfida è riuscire a superare la visione individuale, per abbracciare quella di un comparto viticolo italiano unito e coeso. Come? Lo abbiamo chiesto a Maurizio Ventura, Licensing Manager per l’Europa di Sun World International nel primo numero di uvadatavola magazine.
Prima di guardare al futuro, oggi cosa chiedono i mercati europei?
Bella domanda. Se parliamo strettamente in relazione al momento in cui ci troviamo, direi che i mercati stanno chiedendo principalmente volumi. Ma questo perché l’annata è stata caratterizzata da una carenza di prodotto un po’ in tutto il mondo, non solo nei Paesi europei. Per fare un esempio, solitamente questo è il momento in cui arrivano sul mercato Perù e Sudafrica. Tuttavia, nel caso del Perù – proprio a causa dei volumi ridotti – si è scelto di dirottare il prodotto verso le mete più vicine.
Se tuttavia si fa un discorso più ampio, allora bisogna notare che oggi i mercati chiedono soprattutto la qualità. Ed è un aspetto emerso in maniera evidente proprio negli ultimi anni, quando si è assistito a un cambiamento notevole di tutte le produzioni che hanno raggiunto una qualità di uve sempre più elevata. Grazie all’introduzione di nuove varietà, ma anche all’arrivo di nuovi player sul mercato, si è inevitabilmente alzata l’asticella. In più, la risposta dei consumatori si è confermata un successo. Per questo, a mio parere, d’ora in avanti non sarà più possibile cambiare il trend e, anzi, gli stessi mercati chiederanno sempre più un prodotto di qualità.
A proposito di nuovi sbocchi e nuovi, può l’Oltremare rappresentare un’opportunità interessante per la viticoltura da tavola italiana?
Dipende cosa si vuole intendere esattamente per Oltremare. Se si guarda al mercato degli Emirati Arabi, questo sicuramente può costituire uno sbocco interessante per la produzione di uva italiana. D’altra parte, le porte non sono facili da aprire e per giungere a realtà come questa occorre uno sforzo che onestamente non so se l’Italia sia in grado di fare. Per riuscire ad avvicinare questi mercati, infatti, è necessario presentarsi come un comparto strutturato e unito, che si muova insieme per far sentire la sua voce in tutte le sedi. A tal proposito, chiaramente non deve mancare l’appoggio delle istituzioni che – stando a quanto riportato da alcuni operatori commerciali – negli ultimi anni sembra abbiano un po’ latitato.
A prescindere dall’Oltremare, però, questo sarà un aspetto sempre più centrale: solo se uniti e sostenuti dalle istituzioni, con una programmazione seria e una struttura interna ben definita, sarà possibile aprire nuovi sbocchi. Si veda l’esempio della Spagna che proprio qualche anno fa è riuscita ad aprire un canale commerciale con il Vietnam. Come? Presentandosi compatti e accomunati da una stessa visione. Qui in Italia, invece, ognuno ha il suo orticello e difficilmente si ragiona come comparto.
Riprendendo il discorso della Spagna, che tipo di competitor è? E noi come ci poniamo nei confronti di questo Paese?
Secondo me, la Spagna è un competitor sano. Innanzitutto ha una struttura produttiva diversa, perchè – a differenza dell’Italia – dispone di pochi grandi player che si presentano con un catalogo di prodotti molto più ampio: ogni singolo player, infatti, avendo molti ettari da coltivare, dispone di un’offerta varietale ampia a tal punto da coprire una finestra produttiva più estesa che le permette di presentarsi al cliente, come pure al supermercato del Nord Europa, in modo diverso. E questo – a mio avviso – sprona una competizione sana, perché “obbliga” l’Italia a darsi una struttura diversa. Come si diceva prima, se i produttori facessero squadra – sulla scorta dell’esempio spagnolo – disporrebbero di superfici e volumi maggiori che consentirebbe loro di offrire al cliente finale un servizio migliore, garantendo la continuità stagionale e volumi costanti.
Tanti puntano sul fatto che la Spagna sarebbe avvantaggiata da costi produttivi inferiori, ma non è vero: i costi sono molto simili a quelli italiani, come pure le problematiche che interessano il comparto della viticoltura da tavola. Tra queste, anche la carenza di manodopera, problema diffuso a livello europeo, ma che se in Spagna si potrà aggirare grazie a un’economia di scala in grado di sostenere investimenti per l’automazione di alcuni processi, qui in Italia – proprio a causa della grande frammentazione e quindi della minore disponibilità economica dei singoli produttori – non sarà possibile.
Per questo parlo di competizione sana: guardare alla Spagna ci dovrebbe spronare a presentarci uniti come comparto e come realtà produttiva. Nel nostro Paese purtroppo non si riesce a fare squadra e il sostegno statale è fragile. L’esempio più recente lo abbiamo avuto con il Covid: tutta l’ortofrutta italiana si è presentata compatta per garantire le produzioni, comprare le mascherine e via discorrendo. Tutti hanno applaudito al settore, poi però – a distanza di un anno – quando si è presentata la richiesta di un’agevolazione o lo spostamento di un’aliquota, tutto dimenticato.
Ampliando lo sguardo al di là dei confini d’Europa, come sta evolvendo il mercato della viticoltura da tavola?
Sicuramente, un cambiamento significativo è stato l’ingresso sul mercato del Perù, un Paese che in 5-6 anni ha avuto uno sviluppo enorme, anche qui grazie al supporto della politica locale e alla qualità delle produzioni. Oggi, infatti, l’offerta peruviana si presenta costante in termini di volumi, buona e bella. Non a caso, sta dando qualche grattacapo al Sudafrica, Paese dominatore della fase di controstagione. Ma come si diceva per Spagna e Italia, la concorrenza è un bene, perché impedisce di starsene sugli allori e incentiva a fare meglio. Di fatto il Sudafrica si sta dando da fare per mantenere qualità e costanza di volumi di uva prodotta, nonostante problemi logistici come scioperi o mancanza di container, che da alcuni anni stanno interessando entrambi i Paesi. Accanto a questo, ultimamente il Sudafrica sta anche spostando la sua attenzione verso l’Asia che rappresenta un mercato enorme e in forte crescita.
Discorso analogo per la fase iniziale della stagione: anche in questo caso, infatti, tutti i player protagonisti stanno puntando sulla qualità, primo fra tutti il Nord Africa. E questo conferma quanto detto finora: in futuro il driver principale sarà la qualità, nonostante standard sempre più elevati.
Dal punto di vista del post-raccolta, invece, le tecnologie utilizzate in Italia sono adeguate?
A questa domanda risponderò sempre di no, perché anche se c’è un qualche miglioramento non è ancora sufficiente. Abbiamo player internazionali che riescono a conservare le uve in post-raccolta anche in condizioni peggiori. D’altro canto, credo che anche questo aspetto tra poco cambierà: si avverte sempre più forte l’esigenza di estendere la presenza delle uve italiane sugli scaffali, mentre attualmente arriviamo a Natale con scarsi volumi. E questo discorso è tanto più vero quando parliamo di tecniche di post-raccolta per le varietà di uva senza semi, che al momento rappresenta una profonda lacuna da colmare.
A proposito di varietà apirene, secondo te come evolverà il rapporto tra uve con e senza semi?
Non so quanto tempo ci vorrà, ma senza dubbio si andrà verso la quasi totale produzione di uve senza semi. D’altronde è quanto già successo in tutto il resto del mondo anni prima di noi. Per tutta una serie di ragioni commerciali, l’Italia è arrivata più tardi rispetto ad altri Paesi, ma il discorso è molto semplice: un frutto senza semi è più comodo da mangiare e quindi maggiormente preferito dal consumatore. E questo vale anche per l’uva da tavola: più varietà si introdurranno, intercettando il gusto dei consumatori e soprattutto garantendo un corrispettivo della varietà con semi apprezzata, più le uve apirene si imporranno sul mercato.
E questo, a livello nazionale, rischia di determinare anche un calo del numero di ettari destinati alla viticoltura da tavola?
Noi italiani abbiamo una grande fantasia e una grande capacità di adattamento. L’esempio è quello del kiwi, una specie che nessuno conosceva, ma che ha portato poi l’Italia a diventare uno dei principali produttori mondiali. E questo non solo grazie a condizioni pedoclimatiche favorevoli o alla capacità di adattamento della specie, ma anche alla conoscenza e alla capacità dei produttori che permettono di gestire le sfide con consapevolezza e professionalità. Analogamente anche per le uve senza semi, penso sia solo questione di tempo.
Tutto questo per dire che dubito si possa verificare una riduzione degli ettari, al più si un piccolo calo. Più probabile sarà una sostituzione delle varietà con altre più innovative che incontrano meglio le esigenze del consumatore moderno, più comode da gestire e da mangiare. Il mio ragionamento è sempre questo: se in Italia ci sono 46 mila ettari dedicati alla viticoltura da tavola, un motivo ci sarà.
Concludendo, dunque, l’obiettivo di qui al prossimo futuro sarà fare fronte comune non solo per presentarsi meglio all’estero, ma anche per ottenere qualcosa di più sul territorio stesso.
Si, perché si inizia dal livello nazionale. Anche in questo caso, faccio riferimento alla Spagna: lì ragionano insieme prima a livello di regioni, e poi di Stato. Qui, invece, siamo davvero lontani da questo tipo di approccio. L’ho detto più volte: il futuro è la qualità, ma per ottenerla e riuscire a portarla sul mercato servirà un grande lavoro di coordinamento, programmazione e progettualità. Le capacità ci sono, la fetta di mercato anche, bisogna solo imparare a fare squadra e cogliere tutte le opportunità.
Ilaria De Marinis
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